Ferdinando – scene
L’ARCA DEL NOCILLO DELL’ALLEANZA
Il percorso in pianta e in prospetto dello spazio scenico è alla maniera di piccolo vassoio per servire a ospiti, per niente sospettosi al riguardo, un definitivo sorso di nocillo. Ma voi sapete, qui da noi, con l’allentarsi della Controriforma, ognuno fa l’antico infuso a modo suo: chi raccoglie il mallo acerbo la vigilia di S. Giovanni, chi la notte, chi il giorno stesso e voi sapete, l’avvento non è la stessa cosa della festività. Basta un nulla e tutto cambia.
Lassù, come Napoleone nell’Apoteosi dell’Appiani nel palazzo reale di Milano, Donna Clotilde dei Lucanigro del regno dei terroni, scura nella chioma ma scintillante nello sguardo, proprio come nocillo in molato cristallo nel suo retrogusto acre e insieme zuccheroso, a noi si svela e si rivela sul vassoio.
Ma anch’ella traballa, è instabile proprio come il bicchierino scintillante o come il Napoleone di pocanzi in balia dei prezzolati reggitori.
Intanto bisogna dare il tempo necessario all’infuso di fermentare e di sedimentarsi, di depositare sul fondo le scorie salvando gli umori e le essenze per divenire, nel percorso del rigido canonizzato ricettario, nocillo o alcool o puro spirito che dir si voglia. Ma non c’è più tempo, l’ospite è già qui, è ora di venire spirito, in un modo o nell’altro, nocesse est. Dunque bere nei bicchierini molati gli amari calici.
E sia.. È l’ora!
Tutto è vero e tutto è falso insieme, proprio come Clotilde, in un viscontiano senso della falsità più daccanto alle passioni nobilmente plebee di Senso che non a quelle degli dei della Götterdämmerung nella loro precipitosa caduta.
Tra sopiti rancori e timor panico della divinità appaiono e si degradano nel loro comparire, provinciali apparati nobiliari subdolamente minati dall’ossessione cadenzata dei cembali dei lazzari furfanti che, dal di fuori, nell’attesa vendicativa di un qualche cambiamento o di un minimo turbamento negli sguardi, aspettano come gli indiani nell’assedio di forte Apache.
E la Donna… la Nobildonna asserragliata nel suo letto quasi ultima turris eburnea, essa stessa salus infirmorum di se stessa medesima, sciabola ancora pur sapendo che perduta è la guerra e non solo la battaglia.
Quattro tempi e quattro decisi colori: il bianco, il rosso, il verde e il nero, come nel tricolore negli apparati del lutto nazionale.
Poi nebbie azzurrine e vapori sulfurei intravisti dagli scuri appannati, ma la lava rappresa là fuori è ancora maleodorante di sterco e forse ce ne sarà ancora a penitenza di arcaica bestemmia che più nessuno ricorda.
Intanto il nero vulcano è ceruleo e bonario agli occhi dell’attonito viaggiatore che in queste vetuste contrade, infestate da sirene e briganti, discende.
E poi verrà l’angelo dello sterminio con le ali ancora impolverate di zolfo che, come tutti gli angeli, con le buone maniere e con la buona creanza, che a volte qui da noi, come abituale scongiuro all’anatema, si usa ancora, infrangerà l’ampolla che conteneva il patto del nocillo dell’alleanza.
Francesco Autiero
RITRATTO DI FAMIGLIA IN UN INFERNO
Donna Clotilde, la cugina Gesualda, in mezzo il prete, in alto Ferdinando. Composto ritratto di famiglia in un interno del 1865.
Ma il dramma e l’intrigo sono in ogni piegolina, in ogni gancio, in ogni laccio dei loro vestiti.
Progressivamente la passione scompone i loro abiti: cadono le forcine, le donne diventano Parche, diventano demoni o anime sofferenti per amore come quelle del Purgatorio all’angolo del vicolo.
Ricordi viscontiani e sensazioni polverose di antichi armadi si accumulano e si confondono. Nobile e arrogante nel portamento donna Clotilde, mortificata nel vestire la cugina povera, sciatto il prete, splendente e falso l’angelo della morte.
I colori esprimono le loro stagioni in un precipitare scomposto verso il nero del lutto.
Costumi ricostruiti da foto e dipinti d’epoca ma curiosando nel particolare, entrando appunto nelle pieghe.
E poi, per loro come per me, il fare teatro: il provvisorio velo della Vergine di Don Catello, lo scudo di solido diamante e la corazzetta strappata da Gesualda alla statua di San Michele.
Annalisa Giacci