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Nel mettere in scena L’ultimo scugnizzo, più che una possibilità di lettura che riesca a prendere le distanze dalla tradizione, ho intravisto la possibilità di una lettura che si scrollasse di dosso gli aspetti più banali della convenzione della lettura vivianesca, che andasse cioè oltre l’involucro popolaresco dell’ambientazione convenzionale.
Leggendo il testo, e le accurate didascalie che Viviani vi ha apposto, leggendo le minute descrizioni degli ambienti, dello studio dell’avvocato, del vicolo, dei bassi, ho temuto soprattutto la mediocrità di una ambientazione intesa come convenzione di lettura. Mi sono reso conto immediatamente, leggendo le battute della commedia, che l’ambientazione è davvero già presente nel testo. Dalle battute dei personaggi l’ambiente viene già esso stesso descritto, o evocato, minuziosamente, e questa autosufficienza evocativa tanto forte credo renda superflua ogni materializzazione dell’ambiente.
Si ci può allora fermare ad alcuni riferimenti che divengono cosi emblematici, e quindi indispensabili. Inevitabilmente tutto il resto sarebbe diventato colore, o ripetizione di quanto la parola ha la forza di evocare. Una ripetizione che avrebbe attenuato la forza plastica del testo.
Dal racconto del vicolo fatto dagli scugnizzi, ad esempio, balza fuori con evidenza lucidissima un vicolo ben più vivo di qualsivoglia proposta scenografica di vicolo.
Ho allora voluto immaginare questa messa in scena come immersa in una cornice depurata dai riferimenti naturalistici.
È balzata cosi, come punto di forza innegabile, la parola detta. Ed è diventata indispensabile, anche se particolarmente gravosa, una operazione parallela, che spero sia riuscita, sulla recitazione. Bisognava cancellare cioè l’oleograficismo popolaresco del recitare napoletano, rinunciando all’ovvietà di certi gesti quotidiani per giungere ad una secchezza che eliminasse ogni convenzionalità ed ogni possibile eccesso di sentimenti.
Ho cercato di far si che il testo rimanesse inviolato, nei tempi, nei ritmi, nei significati, mantenendone intatto anche il bagaglio di valori che custodisce, anche se devo dire che alcuni di questi mi sono francamente antipatici. Contemporaneamente ho cercato di far entrare in questa commedi un po’ degli spiriti del teatro europeo di quegli anni, degli anni trenta cioè, anni densi ed intensi di fermenti, che certamente Viviani poeticamente intuì ed interpretò.
Immaginiamo, ho proposto ai miei collaboratori, che Viviani avesse allora, per caso, chiamato un regista europeo a mettere in scena il suo Scugnizzo; potrebbe essere verosimile, se ricordiamo il rapporto che allora alcuni personaggi del mondo dello spettacolo avevano, vedi ad esempio il rapporto tra Petrolini e Gordon Graig.
Cosi, senza voler tentare operazioni gratuite o forzature, cauto ma senza incertezza né timidezza, ho provato a immettere questa commedia in un moderato contenitore scenico e registico che si richiami con discrezione alle esperienze internazionali del teatro di quei tempi.
Non si va oltre il suggerimento, ma pure prospettiamo una certa possibile armoniosa convivenza tra questo testo e un linguaggio scenico che è quello del suo tempo e che avrebbe potuto forse essere impiegato in un ipotetico lontano allestimento.
Ugo Gregoretti