Pretty – un motivo per essere carini – recensioni
“Pretty”, il trionfo dell’aridità
Tutto parte per un fraintendimento: la coppia di fidanzati Steph e Greg è in camera da letto e parla di un evento avvenuto il giorno prima: Greg avrebbe detto, conversando con il suo amico e collega Kent, che la sua fidanzata (Steph) è semplicemente “normale”, e che, ciononostante, non la cambierebbe per nulla al mondo. Chiaramente a nessuna donna piace essere definita “normale”, ma il problema non si sarebbe posto se a origliare questa conversazione non ci fosse stata Carly, amica di Steph, che subito è andata a riferirle l’accaduto (omettendo la parte finale dell’osservazione di Greg). Questo l’antefatto che coinvolge i giovani protagonisti della piecè Pretty- Un motivo per essere carini, fino a domenica 23 febbraio al teatro Menotti, tratto dalla drammaturgia dell’autore Neil LaBute Reasons to be pretty, nonché ultima parte di una trilogia cominciata nel 2001 con The Shape of Things (La forma delle cose) e proseguita nel 2004 con Fat Pig (Grasso come un maiale). Pretty, per la regia di Fabrizio Arcuri, con Filippo Nigro e la Compagnia Gli Ipocriti, è una feroce commedia che, con attori capaci e una bella scenografia , descrive un mondo arido. Le due coppie di amici e colleghi in scena, Greg e Steph, Kent e Carly, sarebbero protagonisti di una vita sicura, con un lavoro solido, il tempo per uscire la sera o andare in palestra. Seguendone le vicende nei diversi momenti della giornata, si assiste però al lucido disfarsi di ogni rapporto di coppia, a causa di un individualismo senza via d’uscita e motivato dal timore dell’altro e del futuro. Dopo il litigio iniziale, si entra in un clima di continui e reciproci sospetti, e si assiste con amarezza all’allentarsi e allo sbiadirsi di tutti i legami che si erano formati nel gruppo; e solo ciò che sta in superficie sembra rimanere.
www.ilcittadino.it
20 febbraio 2014
Pretty – Un motivo per essere carini
Fino al 23 febbraio al Teatro Menotti è in scena la nuova regia di Fabrizio Arcuri per una produzione della Compagnia degli Ipocriti, un lavoro tratto da “Reasons to be pretty” (Un motivo per essere carini) del drammaturgo americano Neil LaBute, nonché l’ultima parte di una trilogia cominciata nel 2001 con “The Shape of Things” (La forma delle cose) proseguita nel 2004 con “Fat Pig” (Grasso come un maiale). Protagonisti un gruppo di amici, due coppie, Greg e Steph, Kent e Carly, che conducono una vita sicura, con un lavoro solido (sono tutti colleghi in una grande macelleria), e hanno il tempo per uscire la sera o andare in palestra. In una scenografia che cambia spesso e descrive con pochi elementi eppure con estrema chiarezza i vari luoghi in cui si svolge l’azione, si assiste al lucido disfarsi di ogni rapporto di coppia a causa di un individualismo senza via d’uscita e motivato da un eccessivo timore dell’altro e del futuro. Lo spettacolo, infatti, inizia con un acceso litigio, in camera da letto, tra Steph e Greg. Litigio causato da motivi irreali, immaginati, da sospetti e ricerche di conferme. Sulla base delle incomprensioni e incapacità di vero dialogo che scaturiscono da questo primo litigio, si entra in un clima di continui sospetti reciproci tra le varie parti in causa nella vicenda, e si assiste con amarezza all’allentarsi di tutti i legami che si erano formati nel gruppo. Ancora feste e ancora lavoro, ancora palestra e ancora possibilità di divertimento: ciò che sta in superficie e che costituisce lo scandirsi delle giornate, rimane. È la profondità dei sentimenti e di legami, però, che sbiadisce e non sembra poter tornare. Bravi gli attori, in uno spettacolo dinamico e coinvolgente, ma che disegna un ritratto fin troppo aspro della società. O meglio: forse negli Stati Uniti la situazione dei rapporti interpersonali è veramente già così (egoista e chiuso), da noi c’è ancora un margine di apertura e amore verso il prossimo.
Marta Calcagno Baldini
www.artslife.com
17 febbraio 2014
“Pretty – un motivo per essere carini” di Neil LaBute
In scena fino al 23 febbraio al Tieffe Teatro Menotti di Milano
Il successo di questa commedia dell’americano Neil LaBute è dovuto alla duplice capacità, di divertire e fare riflettere. Non è impegnata nel sociale, non è portatrice di messaggi “contro”, ma si limita a mettere a nudo la fragile, labile psicologia dei comportamenti umani (particolarmente tra uomini e donne) senza volontà moralistiche. La priorità oggi non è essere, ma apparire e la dionisiaca volontà di essere al centro dell’attenzione; quel comportamento superficiale che rientra nella categoria dell’egotismo. E nel proporci l’immagine riflessa da questo specchio deformante Neil usa l’arma dell’ironia attraverso la parola, le situazioni, i gesti, la mimica dei personaggi. E veicola il suo messaggio in modo surrettizio facendoci riflettere tra una risata e l’altra. I suoi sono piccoli frammenti di vita quotidiana di coppia fra implosioni ed esplosioni, fraintendimenti, ravvedimenti inoperosi e solide incomprensioni.
Al centro della storia ci sono due coppie di amici. Greg (Filippo Nigro), un uomo tranquillo e Stephanie (Fabrizia Sacchi), una donna nevrotica che accusa furiosamente il compagno di aver parlato di lei con un comune amico definendola “Normale”. L’egocentrismo di Stephanie non accetta quella che lei considera un giudizio che ha tutta l’aria di un pregiudizio mai confessato. Di conseguenza pianta Greg malgrado lui si sforzi di convincerla del suo amore e di considerarla non normale, ma “Bella”. Dopo qualche tempo i due si incontrano casualmente e l’inizio sembra presagire un ritorno di fiamma, ma Stephanie si lascia vincere dal suo carattere irascibile e violento.
L’altra coppia è formata da Kent (Giulio Forges Davanzati) e Carly (Dajana Roncione): lui un palestrato ragazzotto di nessuna cultura ma di molte certezze. Lei una bella donna pragmatica e assennata. Tra le due coppie intrighi e tradimenti renderanno il finale incandescente.
La storia sembra voler concludere con due considerazioni contrastanti. La prima è sulla felicità che, come la bellezza, non è altro che un’ utopia. La bellezza cioè è solo in superficie, non esiste eppure tutti la rincorrono. La seconda è sull’importanza di avere fiducia in amore perché l’amore è come l’araba fenice che Post fata resurgo. Ma sarà un amore rimasticato, senza entusiasmo, che non dà felicità.
Belle e funzionali le scene mobili realizzate dallo scenografo Luigi Ferrigno e i video di Lorenzo Letizia. Le scene in video dove a turno i personaggi si sottopongono ad una spietata autoanalisi sono sicuramente i momenti più interessanti perché più veri della pièce. Buona la regia di Fabrizio Arcuri che ha fatto girare a dovere la macchina scenica. Merito dei bravi attori (Filippo Nigro, Fabrizia Sacchi, Giulio Forges Davanzati, Dajana Roncione) che con la loro verve sono riusciti a mantenere vivo, con ritmo e intonazioni acconce, un testo abbastanza monotono e ripetitivo.
Maurizio Carra
www.teatrionline.com
17 febbraio 2014
Pretty – Un motivo per essere carini
In scena a Milano al Teatro Menotti fino al 23 febbraio, la divertente e graffiante commedia di Neil LaBute interpretata da Filippo Nigro e Fabrizia Sacchi mette impietosamente sotto i riflettori le incomprensioni di coppia e l’ossessione per la bellezza.
A causare la crisi insanabile tra Greg e Steph è infatti un commento mal riportato e mal interpretato in riferimento al viso di lei. Ciò scatena una scenata isterica e la rottura della loro relazione, aggravata dalla mancanza di tempismo. Per rimettere insieme i cocci sarebbe bastata una sola parola: “carina”.
Caustico come sempre, a partire dagli esordi cinematografici con il successo al Sundance Festival di “Nella società degli uomini” e con la commedia nera “Betty Love”, il commediografo americano esplora cinicamente la desolazione dei rapporti sentimentali, devastati dalla sfiducia, dall’egoismo e dalla superficialità. E lo fa con esilaranti duetti che i quattro attori (Nigro e la Sacchi nei ruoli del depresso Greg e dell’aggressiva Steph e Giulio Forges Davanzati e Dajana Roncione a interpretare la coppia a loro opposta) inscenano con brillante naturalezza. A caratterizzare “Pretty – Un motivo per essere carini” è infatti la spontaneità di dialoghi quotidiani e un divertimento che cela un fondo crudele.
I quadri sono staccati l’uno dall’altro con monologhi che portano i protagonisti in primo piano – letteralmente, perché la regia di Fabrizio Arcuri li specchia mentre svelano i loro pensieri più intimi – e si susseguono in un intrigo di falsità e tradimenti e di segreti pesanti da sopportare.
Si ride, grazie anche alla verve degli interpreti, e alla fine resta un sapore amaro.
Gabriella Aguzzi
www.quartopotere.com
17 febbraio 2014
Nigro esalta un testo che non graffia
Un gioco al massacro, dove una coppia si disintegra per una frase da nulla. Mette in scena l’inconsistenza e il non detto che minano il quotidiano l’americano Neil LaBute con Pretty-Un motivo per essere carini, commedia cinica di gusto molto anglosassone allestita da Fabrizio Arcuri su stimolo di Filippo Nigro, volto cinematografico e televisivo che da qualche stagione si mette alla prova col teatro. Uno spettacolo dalle promesse interessanti, non mantenute appieno.
Testo:
Greg e Steph sono una coppia sui trent’anni, lui magazziniere in un supermercato, lei parrucchiera. Li troviamo a letto in un litigio furibondo, con lei che lo aggredisce a urli e insulti. La colpa di lui è quella di avere definito il volto della compagna “normale”, definizione all’apparenza innocua che insinua in lei il dubbio di non essere apprezzata, stimata, desiderata, e dà il via al disvelamento di una girandola di fraintendimenti, bugie, tradimenti che coinvolge anche una coppia di amici, Kent e Carly. Nel testo di LaBute, sceneggiatore e regista di cinema dalla penna pungente, sostanzialmente non succede nulla. Tutto è affidato a dialoghi logorroici, in un linguaggio quotidiano che ha come riferimento culturale il pop televisivo, coi personaggi che si gettano addosso crudeltà, ma non si ascoltano mai veramente, monadi solitarie egoiste e infelici. L’autore guarda a Mamet con un quadro cinico sull’oggi, ma nel procedere la commedia gira su se stessa, perde mordente e cattiveria, si edulcora, cade nel convenzionale.
Regia:
“Specialista” con la sua Accademia degli Artefatti nella drammaturgia contemporanea anglosassone, da Sarah Kane a Crimp e Ravenhill, Fabrizio Arcuri sottolinea nella sua regia il sottotesto sociale disumanizzante e consumistico, collocando i personaggi su una pedana rotante che da camera da letto diventa il magazzino del supermercato in cui lavorano i protagonisti. Ai lati, due cabine per apparizioni stranianti, dal pollo gigante testimonial di fast food a quarti di animali macellati, simboli di un immaginario postmoderno dove convivono pop da fumetto e crudeltà. Segni forti che, insieme al movimento delle scene e dei video, dà ritmo allo spettacolo e ne stratifica le letture, illuminando più livelli.
Interpretazione:
Per un testo così insidioso nell’apparente superficialità occorre credibilità interpretativa. Filippo Nigro la trova dando al suo Greg una fragilità intimista e una timidezza buffa alla Woody Allen, tutta incertezze e balbettii nel parlare, che inteneriscono. Bravissimo, come Fabrizia Sacchi che dà umanità e sensibilità alla sua Steph, facendone un personaggio sfaccettato e in crescita. Più monolitiche le prove dei comprimari Giulio Forges Davanzati, troppo sopra le righe, e Dajana Roncione, perfetta per presenza ma un po’ rigida.
Simona Spaventa
la Repubblica edizione Milano
14 febbraio 2014
“Pretty”, l’insostenibile leggerezza dell’apparenza
Dicevano le nonne che la bellezza è negli occhi di chi guarda. Ma Steph se ne deve essere scordata (o forse in America non si usa) se, per una frase detta dal fidanzato all’amico Kent, gli fa gran scenataccia e poi lo pianta. “Il suo viso è normale, ma non la cambierei per niente al mondo” a Greg pare un complimento, in lei invece sgretola ogni certezza: è come essere definita brutta e per traslato non amata. Da questo momento in poi per quadri e tempi successivi i quattro (c’è anche la donna di Kent, Carly) si incontreranno sempre disquisendo con variazioni progressive sul tema dell’aspetto, il proprio, di partner e amanti (per ognuno c’è un momento della verità, monologo interiore ripreso da una minicamera e riproiettato: fa un po’ effetto confessionale ma funziona). E’ un dialogo tra sordi che parrebbe all’inizio declinazione estrema ma conseguente del teorema che “gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere”, ovvero sono destinati a non capirsi. Al più, come suggerisce Kent, per tenerle buone, alle donne si può dire ciò che sappiamo farle contente. Ma anche i due ragazzi non sono immuni alla reciproca manipolazione, all’uso delle categorie estetiche per definire il loro rapporto: rotta la solidarietà omertosa, l’amicizia maschile si scopre strumentale e insincera. Infelici e scontenti tutti, alla fine. E neppure un po’ più consapevoli. Scritto da Neil LaBute, regista cinematografico e autore teatrale, la commedia “Pretty – Un motivo per essere carini” (di cui esiste il sequel “Reason to be happy” e che fa parte, con “The Shape of Things” e “Fat Pig”, di una trilogia sull’apparenza e la sua importanza nella nostra società) dà modo al regista Fabrizio Arcuri di sperimentare linguaggi diversi e sviscerare fino alle estreme conseguenze la lingua d’uso comune, avendo a disposizione un quartetto d’attori – Filippo Nigro, Fabrizia Sacchi, Giulio Forges Davanzati, Dajana Roncione – che perfettamente lo assecondano, dando il giusto tono della quotidianità a quanto fanno e soprattutto dicono i loro personaggi.
Adriana Marmiroli
La Stampa
13 febbraio 2014
PRETTY Un motivo per essere carini
Si fa presto a dire commedia. Salire sul palco per far ridere il pubblico può sembrare un’arte minore, rispetto agli Ibsen e ai Pirandelli del teatro “alto”; intanto però io vado a vedere almeno una dozzina di commedie di autori contemporanei all’anno, e raramente ne trovo mezza che vale la pena. Di solito trascorro l’intero spettacolo con la sensazione che la gente in sala rida solo per dare un senso al prezzo del biglietto.
Ieri sera mi è successo qualcosa di strano: sono andato a teatro e ho visto una commedia che fa effettivamente ridere.
Si intitola Pretty – Un motivo per essere carini ed è opera del commediografo Neil LaBute, più noto per la sua eclettica attività di regista e sceneggiatore cinematografico; la sua filmografia spazia dal drammatico – Nella società degli uomini – al comico – Betty Love – al romantico – Possession – al thriller – La terrazza sul lago.
Insieme a La forma delle cose, del 2001, e Grasso come un maiale, del 2004, Pretty compone una sorta di trilogia ideale dedicata all’ossessione della società contemporanea per la bellezza. In questo terzo capitolo facciamo la conoscenza di Greg, impacciato e sfortunato magazziniere con velleità intellettuali, che si vede piantare in asso dalla fidanzata Stephanie in seguito a un commento innocente sul di lei aspetto fisico. Come se non bastasse, il povero Greg viene coinvolto nelle trame del collega Kent, fedifrago benché sposato con una ragazza bellissima, Carly.
Per chi si vergogna ad ammettere che si può andare a teatro anche solo per divertirsi, preciserò che la vicenda diventa occasione per alcune riflessioni non banali. A tratti il flusso degli eventi si ferma e i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico, affrontando argomenti come l’amore, la coppia e il peso dell’elemento estetico su entrambi.
Ma Pretty – Un motivo per essere carini è soprattutto una commedia che fa ridere. Sfido chiunque a rimanere serio davanti alle peripezie del Greg incarnato da un bravo e simpatico Filippo Nigro, vittima delle ire uterine di Stephanie – Fabrizia Sacchi – delle moleste stravaganze di Kent – Giulio Forges Davanzati – e dell’aggressività di Carly – Dajana Roncione.
Merita menzione anche la regia di Fabrizio Arcuri, arricchita da alcune trovate non molto comuni per il teatro italiano, come la presenza in scena di una telecamera usata per ingrandire e moltiplicare i primi piani dei protagonisti. E un applauso va anche al reparto scenografia, responsabile di alcuni spettacolari cambi di scena.
Daniele Gabrieli
LENIUS
12 febbraio 2014
“Pretty, un motivo per essere carini” è una commedia firmata da uno degli autori americani contemporanei più rappresentato Neil LaBute, in scena al Teatro Menotti di Milano fino al 23 febbraio. Questo testo è l’ultimo capitolo di una trilogia cominciata nel 2001 con The Shape of Things (La forma delle cose) proseguita nel 2004 con Fat Pig (Grasso come un maiale); qui il tema centrale è l’ossessione della bellezza e come influenza i rapporti e le relazioni.
Greg (Filippo Nigro) e Steph (Fabrizia Sacchi) stanno litigando in camera da letto; lei è furiosa, lui cerca di arginare la rabbia della fidanzata ma inutilmente. Carly (Dajana Roncione), fidanzata di Kent (Giulio Forges Davanzati), amico di Greg, ha riferito di aver ascoltato una conversazione nella quale, Greg avrebbe definito Steph “normale”, non bella, nemmeno carina solo normale; Steph cerca di far confessare Greg e alla fine lui ammette di averlo detto ma non con un’accezione negativa. Lo scontro è inevitabile perché per lei è insopportabile il pensiero di non essere amata completamente, la sua rabbia cresce ed è incontrollabile; lui non riesce a spiegare le sue ragioni, non riesce ad affrontare la fragilità di Steph, le sue parole cadono nel vuoto e le due anime si separano, anche se continuano a rincorrersi. Anche Carly e Kent hanno i loro problemi; lei bellissima teme di essere lasciata dal fidanzato, che in effetti la tradisce; il loro rapporto si basa su un fragile equilibrio che potrebbe incrinarsi in qualunque momento.
Tutti i personaggi in scena lottano contro le loro paure, le loro fragilità, le loro insicurezze; la bellezza che ciascun essere umano possiede spesso si nasconde dietro incertezze e critiche, spingendo ciascuno in situazioni di grande tensione. Con un linguaggio feroce ma al tempo stesso esilarante, Neil LaBute pone al centro dell’attenzione il tema della bellezza, così attuale in una società come la nostra dominata dall’immagine e dalla potenza della sua affermazione e dove indubbiamente i rapporti di coppia sono influenzati dal significato che diamo a questa parola. Attraverso momenti di vita quotidiana, confronti e discussioni, i quattro protagonisti cercano un modo per afferrare la felicità ma il percorso è pieno di insidie e spesso il nemico più grande è proprio nascosto dentro di sé. Il regista Fabrizio Arcuri è riuscito a cogliere il senso profondo del mondo raccontato da LaBute; ciascuno dei personaggi è caratterizzato da una gestualità che racconta la propria natura, il tormento, le emozione. Interessante l’uso di una telecamera per raccontare i momenti privati dei quattro protagonisti, quando si ritrovano a riflettere senza condizionamenti, su se stessi, cercando di guardare il proprio animo, scoprendo il lato più oscuro di sé. Funzionale anche la scenografia che permette ai personaggi di muoversi attraverso i luoghi che sono testimoni di un percorso che li spinge a inseguirsi, a confrontarsi, a scontrarsi; le scene ruotano come lo scorrere della vita, accogliendoli in un via vai senza fine.
Bravissimo Filippo Nigro che torna a Milano in questo stesso teatro dopo “Occidente Solitario”; convincente e sempre perfettamente dentro il personaggio che interpreta, trascina la compagnia tra le pieghe di un testo complesso e ricco di letture e sottotesti che pian piano emergono nei dialoghi; sostiene il ritmo del testo senza mai esagerare. Il suo personaggio si confronta con i pericoli e gli inganni della comunicazione; con sé porta sempre un libro, quasi a volere dimostrare l’importanza della parola ma in realtà il suo Greg si dovrà presto rendere conto della difficoltà del comunicare, di quanto molto spesso le parole acquistano un senso diverso da quello originale perché caricate di significati che nascono da coloro che le ascoltano.
Al suo fianco un’eccellente Fabrizia Sacchi che ha la grande qualità di porre al centro non se stessa come attrice ma il personaggio che prende vita attraverso il suo corpo e la sua voce; racconta con grande intensità un personaggio complesso che racchiude in sé rabbia e insicurezza, aggressività e fragilità, riuscendo a far emergere le mille sfumature dell’animo di questa donna alla ricerca di un senso di felicità che acquista una forma e un valore diverso da quello immaginato e desiderato.
Tamara Malleo –
Recensito.net
12 febbraio 2014
La bellezza si paga, la bruttezza anche
E’ cosa nota che nel nostro Paese non si portano spesso in scena testi di drammaturghi stranieri contemporanei e ciò è tanto più inspiegabile se si pensa che quando si presenta una pièce che parla di noi difficilmente la risposta del pubblico si fa attendere.
“Reasons to be pretty” scritto da Nail LaBute, una delle voci più fresche (e scomode) della nuova drammaturgia americana è l’ultima parte di una trilogia iniziata nel 2001 con “The Shape of Things” (La forma delle cose) e proseguita nel 2004 con “Fat Pig” (Grasso come un maiale).
Lo spettacolo si configura come una cruda indagine nelle piaghe dell’uomo contemporaneo diretta da Fabrizio Arcuri, talentuoso regista votato alle nuove drammaturgie e abile organizzatore teatrale che abbiamo recentemente apprezzato sui palcoscenici milanesi in “Sangue sul collo del gatto”,“Taking Care of Baby”, ‘Lo show dei tuoi sogni’ (Teatro dell’Elfo, 27 novembre-8 dicembre) e nel progetto “I, Shakespeare” (Teatro dei Filodrammatici, 14-26 gennaio).
Il tema centrale della commedia è la superficialità frammista di individualismo in cui crescono e prendono forma le odierne relazioni sentimentali. In un mondo in cui sembra che la bellezza stereotipata sia passaporto necessario per la felicità amorosa vivono due coppie di amici : Greg (Filippo Nigro) e Steph (Fabrizia Sacchi), Kent (Giulio Forges Davanzati) e Carly (Dajana Roncione). Steph è abbastanza carina ma è mortificata dal fatto che il suo fidanzato la consideri “normale” anche se non la cambierebbe per nulla al mondo e sceglie di lasciarlo. Carly invece è un trofeo molto avvenente ma ciò non impedisce allo sciupa femmine Kent di intrattenere una relazione sessuale con un’altra bella donna e a lei di vivere tormentata nel terrore dei tradimenti.
Amore, liti, tentativi di far pace segnano il ritmo allo spettacolo mescolando le vicende delle due coppie di amici. Greg, Steph, Kent e Carly sono tipologie di un’umanità che sembra strizzare l’occhio ai personaggi di tante pièce di Frank Castorf, gente che sceglie ciò che non dovrebbe scegliere.
Un pastiche amaro e ironico al tempo stesso che si focalizza sulla relazione umana: relazione in scena tra i personaggi e relazione tra personaggi e pubblico. Ed è così che entro un’azzeccatissima scenografia mobile questo gruppo di giovani e talentuosi attori più che nel recitare si legittima navigando verso la vita in cerca di una verità che viene rigurgitata talvolta in monologhi intimi proiettati in modalità cinematografica, talvolta in discussioni davanti o dietro una confortevole parete di vetro capace, con la sua sola assenza o presenza, rispettivamente di avvicinare o tenere a distanza lo spettatore.
E’ “Venere allo specchio” di Velàzquez e una riflessione sulla soggettività della bellezza a chiudere l’incanto di questo spettacolo riuscito, prima che tutto sia convertito in finzione dagli applausi del pubblico che affolla la rinnovata sala del Teatro Menotti.
Naike Trenti
Teatro.org
11 febbraio 2014
GLI SCHERZI DELL’AMORE E DEL CASO
«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?» Potrebbe venirvi in mente questa frase leggendo il titolo dello spettacolo: “Pretty, un motivo per essere carini”, ma non lasciatevi andare a ricordi favolistici perché questo testo di Neil LaBute è più concreto di quanto si potrebbe pensare. La bellezza c’entra eccome, si parte da quella fisica per scandagliare le tante sfaccettature dell’amore e dell’uomo con un mix di cinismo e battute al vetriolo dal sapore molto reale. «Il suo viso è più normale»: sono le parole dette tra uomini, pour parler, senza pensare alle conseguenze, alla possibilità che casualmente Carly (Dajana Roncione) possa ascoltare e riferire alla sua amica questo “giudizio” del compagno che dice di amarla. Sarà proprio questa riflessione spifferata a scatenare il putiferio nella coppia Steph (Fabrizia Sacchi) – Greg (Filippo Nigro). Si apre il sipario e già dopo pochi minuti di botta e risposta (e qualche silenzio, anche di ripicca), lei sembra ossessiva, lui recita la parte del cane bastonato che non riesce a comprendere come mai la sua donna abbia una reazione tale. Con l’evolversi del plot LaBute ci suggerisce che non esistono ruoli predefiniti per l’uomo e la donna così come non esistono vittima e carnefice al 100%, ma ci sono le variazioni di grigio tra il bianco e il nero. Cosa vuol dire essere normale? Un termine non facile da definire, per Steph, assume un’accezione negativa perché ogni donna vorrebbe essere speciale per il proprio uomo, vorrebbe che lui vedesse in lei qualcosa che gli altri non vedono. Michael Radford nel suo documentario dedicato a Michel Petrucciani (“Michel Petrucciani – Body and Soul”, 2011) ci mostrava quanta bellezza potesse scaturire da quell’uomo dalle “ossa di cristallo” e ci comunicava come nella vita sia tutta una questione di prospettive e che in ognuno di noi convive l’ossimoro anormale-normale. Qui, il drammaturgo americano punta l’occhio di bue sulle dinamiche dell’amore e dell’individuo attraverso il “pretesto” della bellezza. “Pretty – un motivo per essere carini” va a chiudere, infatti, una trilogia nata nel 2001 con “The shape of things” (diventato anche un film nel 2003) e proseguita con “Fat pig” nel 2004. In particolare, sottolineiamo come nella prima pièce del trittico il protagonista cambiava look, si trasformava completamente per amore e, posta in questi termini, sembrerebbe un espediente banale per creare la commedia di turno, ma si sa, spesso, è proprio attraverso la leggerezza che arrivano le sferzate peggiori. Nel caso di “Pretty – un motivo per essere carini” viene naturale pensare, a tratti, che il testo non ci stia dicendo nulla di nuovo, ma al contempo va riconosciuta la sua non pretenziosità; si tratta, in fondo, di una commedia onesta, godibile soprattutto grazie alle interpretazioni assolutamente in parte della Sacchi e di Nigro, bravo anche Giulio Forges Davanzati nel ruolo di Kent – l’amico un po’ farfallone. Un valore aggiunto proviene dalla regia sempre molto acuta di Fabrizio Arcuri che guida i suoi attori e gli spettatori nei meandri di un testo a cui sa dare lo slancio che talvolta manca. Le scene mobili di Luigi Ferrigno e i video di Lorenzo Letizia sono a servizio di una regia studiata, ma mai invadente; assistendo a questa messa in scena si avverte tutto lo specifico teatrale così tanto decantato – aspetto che sembrerebbe scontato, ma non lo è – e il modo di far regia del fondatore dell’Accademia degli Artefatti si sposa con la comunicazione tra le arti, un’interazione che si rivela anche nei monologhi dei nostri protagonisti ripresi live e ancor più nella messa in scena vera e propria della macchina da presa – uno svelamento del meccanismo della rappresentazione, ma anche un modo per stare addosso ai personaggi, per far sentire lo sguardo (così prettamente connesso con il concetto di bellezza) dell’altro e, forse, “denunciare” sottilmente l’ottica della società: l’apparenza. «Non ho mai ricercato nel mio lavoro uno stile o un qualsivoglia approccio che partisse dalla ricerca di originalità, la mia è una ricerca di senso. Ogni volta che iniziamo un nuovo progetto quello che cerchiamo è il senso, l’opportunità e la legittimità» e anche in “Pretty – un motivo per essere carini” Arcuri rispetta questa sua dichiarazione di intenti. Dopo aver portato in scena “Il gioco dell’amore e del caso” di Marivaux (regia di Piero Maccarinelli) ed essersi messa in discussione col doppio ruolo di Rachele/Rocco in “Servo per due” (regia di Favino e Sassanelli), la Sacchi offre un’altra ottima interpretazione “giocando” con il ruolo che la bellezza ha nella società e per il singolo e, forse, un’altra attrice avrebbe potuto temere una sovrapposizione tra Stephanie e Fabrizia rispetto al giudizio sulla propria bellezza. Spesso si dice che l’amore sia cieco, in “Pretty – un motivo per essere carini” non è completamente così, l’innamorato/a vede ma sceglie (soprattutto inizialmente) di trascurare ciò che vede, fino a quando un po’ per caso, un po’ perché la pentola prima o poi scoppia insieme alle insicurezze di Steph e Carly (per motivi diversi)… tutto viene a galla. Fino a che punto si può vomitare tutto ciò che si ha dentro? «Mi sono reso conto di non avere più bisogno di te» e allora ci si chiede: si sta insieme per bisogno? Qual è l’immagine che diamo di noi stessi? E quella che recepiscono gli altri? Queste e altre domande passano veicolate da un linguaggio che tra crudeltà e risate/sorrisi rimanda a ognuno di noi la propria personale sentenza, se di “sentenza” si può parlare.
Maria Lucia Tangorra
www.teatroespettacolo.org
11 febbraio 2014
Ultima parte della trilogia di Neil LaBute, Reasons to be pretty (o più semplicemente Pretty, come nella traduzione per le scene italiane) arriva al Teatro Menotti di Milano, portato in scena dal regista Fabrizio Arcuri. Una commedia piacevole, grazie soprattutto ad un’impostazione scenografica molto vicina al linguaggio della sit-com, o comunque lontano dalla tradizione teatrale classica. Una sinfonia pop adatta ad un pubblico trasversale.
Annunciata come testo feroce ed esilarante, ma circoscrivibile più che altro come contemporaneo e senza peli sulla lingua (forse per effetto di un adattamento linguistico, e di conseguenza culturale), la commedia è giocata tutta attorno alla riflessione su che cosa siano i sentimenti oggi. Il filtro di osservazione è offerto da una doppia coppia, i cui fragili equilibri di facciata sono sconvolti da un gioco di rivelazioni e indiscrezioni incrociate, con un finale di separazione che non getta ombre di tristezza sul lieto fine, tanta ormai è l’abitudine al consumo dei territori concreti e simbolici dell’uomo.
Il pregio maggiore dello spettacolo risiede nella dinamicità del palcoscenico che ruota e si trasforma in un battibaleno portandoci nelle vite parallele dei quattro personaggi e dandoci uno sguardo complessivo d’ambiente che risulta credibile, almeno fino all’inserzione pittorica colta del finale che innalza la riflessione ma rischia di sembrare fuori cornice.
C’è un’interessante scelta recitativa: talvolta molto muscolare, talvolta più intima. Gli ‘a parte’ teatrali messi in scena come se fossero dei freeze frame in primo piano di un montaggio cinematografico molto giovanilistico fanno parte sicuramente della seconda tendenza.
Filippo Nigro, nome più titolato nel cast, è evidentemente il perno del dialogo. E’ un po’ il selling element dello spettacolo. Nella narrazione è probabilmente il più lucido dei personaggi, man mano che il disincanto ne mostra la maschera nuda. Buona prova anche per gli altri tre protagonisti del gioco delle coppie: Dajana Roncione, Giulio Forges Davanzati, Fabrizia Sacchi (volti già rodati nei circuiti del piccolo schermo e del cinema, a dimostrazione che il taglio registico ammicca con consapevolezza ad ritmi e tendenze extralinguistiche rispetto alla prosodia della ribalta).
Solo una perplessità: sarebbe stato più opportuno creare un calco italiano dell’opera dando ai personaggi nomi più compatibili con le scene che si svolgono in spogliatoi da campo di calcio (molto poco americani e molto vicini all’atmosfera della nostra penisola) e in locali che forse sarebbero stati più omogenei ai dialoghi se avessero abbassato le preteste di fedeltà originaria e si fossero accontentati di uno sfondo cittadino nostrano?
Chiarito il dubbio più grande, va riconosciuto il merito dell’integrazione dei linguaggi scenografici e multimediali, curati da Luigi Ferrigno e Lorenzo Letizia.
Cristian Tracà
Il Tablog
febbraio 2014
Parole, parole, parole
Fuochi d’artificio di parole e bad words rimbalzano sul palcoscenico milanese, dove cinque giovani attori ricreano, con entusiasmo e bravura, tipiche atmosfere americane descritte da uno dei più rappresentati autori contemporanei statunitensi, Neil LaBute.
Nel suo “Pretty”, ovvero “Reasons to be pretty”, terza e ultima fase di una trilogia da lui iniziata nel 2001 con “The shape of things“ (La forma delle cose)” e proseguita con “Fat Pig ” (Grasso come un maiale). Filippo Nigro/Fabrizia Sacchi e
Giulio Forges Davanzati/Dajana Roncione si identificano nelle due coppie che interagiscono con sfoghi, chiacchiere e incomprensioni, in una guerra non proprio fredda tra i sessi dove salvifici termini quali “complicità” e “condivisione” appaiono rimpiazzati da “competizione a oltranza”.
Un mondo dove non si fa accenno a comuni progetti futuri, ma dove il tema è l’ossessione del riconoscimento da parte dell’altro per la propria bellezza. Molte risate ed effetto catartico.
Purtroppo, a volte, tutto il mondo è paese.
Maria Luisa Bonivento
IlNordnews
febbraio 2014
Quando la bellezza diventa un problema
Dopo la tragedia shakespeariana, al «Lauro Rossi» approda Pretty-Un motivo per essere carini, scritta dal commediografo americano Neil LaBute. La regia è curata da Fabrizio Arcuri, alla guida di un cast di validi interpreti che normalmente alternano i loro impegni tra teatro, cinema e tv. Greg (Filippo Nigro), Steph (Fabrizia Sacchi), Kent (Giulio Forges Davanzati) e Carly (Dajana Roncione), tutti personaggi di modesta levatura sociale, costituiscono due coppie dalla esistenza alquanto turbolenta. Il tema portante di «Pretty» è l’ossessione per la bellezza, o anche per la sua mancanza, nei rapporti interpersonali. Con crudeltà e qualche risata, tra chiacchiere e incomprensioni, il testo esprime gli impulsi più oscuri dell’uomo in un girotondo tragicomico di scambi feroci e corrosivi, il tutto infarcito di sarcasmo e ironia. Il difficile rapporto di coppia è un tema molto caro a LaBute che con «Pretty» completa, per il momento, una trilogia iniziata una dozzina di anni fa. Steph si crede abbastanza carina, ma è mortificata dal fatto che il suo compagno di vita la giudichi semplicemente «normale», anche se non la cambierebbe per nulla al mondo. Questo fatto crea nella giovane donna, dal carattere irascibile e polemico, una veemente reazione. Lo spettacolo inizia, infatti, con una lite furibonda tra i due, in camera da letto. Il povero Greg tenta in tutti i modi di difendersi, ma Steph è aggressiva, non gli lascia spazio. Evidentemente, la donna attribuisce grande importanza al fattore bellezza all’interno della coppia al punto che, vedendolo messo in discussione proprio dal suo uomo, decide di troncare un rapporto per lei divenuto ormai insoddisfacente. Ma anche Carly ha qualche problema con la bellezza, seppure di natura opposta: sa di essere attraente e di piacere agli uomini che le dedicano fin troppe attenzioni. Quello che per le altre donne rappresenta in genere un bel punto di vantaggio, per lei sembra essere un impiccio. Arriva a pensare che la bellezza possa essere addirittura uno strumento di potere per manipolare le persone. La sua esistenza è afflitta dal costante timore che Kent possa tradirla, cosa che inevitabilmente si verifica con una nuova collega di lavoro, sexy e provocante. Anche questo è un ulteriore punto di riflessione: perché Kent, che ha a fianco una donna piacente manda a monte la sua vita sentimentale per una semplice avventura? Ben presto tutti i protagonisti finiranno per essere invischiati in un intrigo di segreti e tradimenti, da cui nessuno riuscirà più a sfuggire. LaBute racconta il mondo d’oggi, attraverso dialoghi naturali e conversazioni leggere, mostrando la natura individualista dei rapporti personali, l’egoismo dei personaggi e la superficialità delle relazioni umane. Il suo lavoro pone allo spettatore più di un interrogativo, ai quali non è facile dare una risposta. I quattro protagonisti sono presi in un tourbillon furibondo, una giostra di vicende, osservate al microscopio, che Neil LaBute è riuscito a intessere intorno a piccoli episodi di quotidianità che esplodono a causa di fraintendimenti e delle diverse sensibilità che regolano i rapporti tra uomini e donne. Un raffinato gioco delle parti senza esclusione di colpi, uno specchio dei nostri tempi in cui le relazioni sono costruite sull’immagine che abbiamo degli altri, invischiate nella difficoltà di riuscire a conoscerci per ciò che siamo realmente. È il solito problema dell’essere e dell’apparire. Gli interpreti hanno messo in evidenza una corposa preparazione, frutto di variegate esperienze artistiche maturate, come detto, in vari settori dello spettacolo. L’esibizione del quartetto è da ritenersi senz’altro di alto livello, e sono solo all’inizio della loro avventura. Infatti, dopo il debutto positivo al Teatro Nuovo di Napoli, la Compagnia degli Ipocriti ha iniziato, proprio da Macerata, una tournée che toccherà subito Milano e poi gran parte della provincia italiana, da nord a sud.
Walter Cortella
www.cronachemaceratesi.it
09 febbraio 2014
IL DISAGIO DELLA NORMALITA’
Napoli – L’impossibilità di essere normali. O la normalità di essere impossibili. La necessità di adeguarsi ai canoni che il mondo impone. Compreso il desiderio di essere, all’interno di quei canoni, speciali. La fragilità che questa ricerca costante comporta. Il dubbio, sempre in agguato, di essere inadeguati, di non sentirsi all’altezza. L’altro, soprattutto quello che ci sta più vicino, che diviene specchio attraverso il quale riflettiamo la nostra immagine nel mondo. Il tutto complicato ulteriormente dalla costante difficoltà a comunicare in maniera reale, sincera. Basta poco per sentirsi soli. Una parola male interpretata, un atteggiamento frainteso. E il precario castello di carte che sostiene relazioni e sentimenti crolla immediatamente. Steph non può sopportare che Greg, il suo uomo, abbia definito il suo viso “normale”. Carly, infatti, avendo ascoltato casualmente la confidenza che Greg aveva fatto a Kent, il suo fidanzato, ha ritenuto doveroso informare immediatamente la sua amica Steph di tale giudizio “oltraggioso”. E’ la scintilla, lo spunto che dà il via a questa brillante, in superficie, ma sotterraneamente drammatica pièce del drammaturgo americano (molto attivo anche come sceneggiatore e regista cinematografico) Neil LaBute, e nella quale le vicende e i destini dei quattro personaggi protagonisti si intrecciano per offrire uno spaccato di “ordinarie follie” individuali, compresse e centrifugate in quell’altra grande follia più diffusa e generalizzata che percorre, ormai, l’intero mondo contemporaneo. Ovviamente non è l’intreccio amoroso ad interessare particolarmente il drammaturgo, quanto piuttosto le maniere con cui i linguaggi della contemporaneità si esprimono. E i disagi e le sofferenze che attraverso tali linguaggi, seppur involontariamente, emergono e si evidenziano. Non a caso il regista di questa versione italiana di Pretty, un motivo per essere carini, in prima nazionale al Teatro Nuovo di Napoli, oltre a rimarcare il fuoco di fila secco e incalzante dei dialoghi, così come già concepito nel testo originale di LaBute, lavora molto sul linguaggio del corpo, sulla concreta fisicità messa in campo dai suoi attori. Quella fisicità ostentata ed estetizzante che è un tipico luogo della modernità, o almeno dei suoi modelli più diffusi e accettati. Quella fisicità accuratamente levigata sotto la quale si spalancano vuoti spesso abissali. Così c’è tutta una particolare gestualità, praticata dagli attori, un insieme di posture e di atteggiamenti, ma anche di tic e di pose, che vanno a costruire un sottotesto a suo modo più espressivo e inquietante delle parole stesse. Mentre il momento di abbandono, di consapevolezza profonda, di disarmante sincerità, cui a turno i quattro personaggi si sottopongono, è delegato, ovviamente, all’occhio di una telecamera che riproduce e raddoppia l’immagine, affidando alla sua superficie scivolosa, anche l’anima di questi piccoli, fragili e irritanti allo stesso tempo, “campioni” dei nostri tempi. Ai quali prestano i loro corpi, nervosi, sfuggenti, frenetici e, per molti versi, iconici, i bravi Filippo Nigro, Fabrizia Sacchi, Giulio Forges Davanzati e Dajana Roncione, che si misurano abilmente sul ritmo serrato dei dialoghi e sul totale e fortemente impegnativo coinvolgimento fisico. Mentre, come in un film di David Lynch, e al pari della pioggia di rane che chiude Magnolia di Paul Thomas Anderson, un attore travestito da grosso pupazzosi muove sulla scena , come invisibile agli altri, a sottolineare quanto di surreale e di assurdo vi sia in tanto apparente realismo.
Antonio Tedesco
www.teatrocult.it
18 gennaio 2014
Filippo Nigro e Fabrizia Sacchi protagonisti di Pretty e la ricerca della felicità
Debutto in prima nazionale, al Teatro Nuovo, per Pretty, Un Motivo per essere carini di Neil LaBute, presentato dalla Compagnia degli Ipocriti, per la regia di Fabrizio Arcuri (repliche fino a dom. 19 Gennaio; feriali ore 21:00, dom. ore 18:30).
L’autore statunitense, che già abbiamo conosciuto e apprezzato in questa stagione con Some Girl(s) al Piccolo Bellini, torna a farci ridere e riflettere con una nuova (per l’Italia) graffiante commedia che ha, di nuovo, per oggetto i rapporti di coppia. In scena Steph (Fabrizia Sacchi) e Greg (Filippo Nigro), impiegati part-time in un supermercato, e due loro colleghi, Kent (Giulio Forges Davanzati) e Carly (Dajana Roncione). La tranquilla relazione dei primi viene messa in crisi quando Carly riferisce all’amica una conversazione carpita fra i due uomini, in cui Greg definisce la propria compagna “una ragazza dal viso normale”. Ciò che potrebbe sembrare una banalità per un uomo,
diventa una grave offesa per una donna, al punto di provocare la rottura di un rapporto. Il termine “normale” è un insulto per chi, uomo o donna di questi tempi, ricerca la perfezione fisica come mezzo di affermazione sociale. “Pretty” diventa una diminuzione di “Beautiful”, e il tentativo di porre rimedio ad una gaffe non fa altro che acuire il senso di frustrazione in chi cerca di aderire ai canoni estetici che la società impone. La ricerca della felicità coincide con quella della bellezza esteriore. L’impossibilità di esprimere nel modo giusto ciò che veramente s’intende e di esternare sinceramente i propri sentimenti è il fulcro del testo (che chiude una trilogia cominciata nel 2001 con La Forma Delle Cose, e proseguita nel 2004 con Grasso Come Un Maiale). I dialoghi sarcastici,
le battute taglienti, la goffaggine dei personaggi sono quelli cui LaBute ci ha abituati. E il finale non è certo hollywoodiano, ma neanche drammatico. Come nella vita, ciascun personaggio cercherà di trarne un insegnamento. Ciascuno a suo modo. Ma sarà quello giusto? La regia di Arcuri appare fresca, agile e tende a sottolineare gli elementi più distorsivi della civiltà dei consumi e dell’immagine: dall’ambientazione, che può essere – di volta in volta – un supermercato o una discoteca o un campo di calcetto, ai monologhi davanti ad una videocamera che ne proietta l’immagine in primo piano, quasi che fosse un “confessionale” del Grande Fratello. Le scene, belle e sorprendenti, portano la firma di Luigi Ferrigno. Quanto agli interpreti, tutti bravi e fisicamente molto preparati. L’energia che sprigionano rende un buon ritmo. Anche se qualche taglietto, qua e là, gioverebbe allo spettacolo che rischia di stancare un po’ lo spettatore meno paziente.
Dopo il debutto napoletano, lo spettacolo sarà in tournée. Prime date: Macerata, Teatro Rossi (il 5 e il 6 Febbraio) e Milano, Teatro Menotti (dall’11 al 23 Febbraio).
Molto pretty.
Davide D’Antonio
www.mydreams.it
16 gennaio 2014