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La Musica dei Ciechi

di Raffaele Viviani

La potenza di questo atto unico consiste nel descrivere una immensa tragedia diventata abitudine

scene e costumi Bruno Buonincontri
elaborazioni e musiche Pasquale Scialò
regia Antonio Calenda

con in o.a.
Bruno Cariello, Italo Celoro, Antonio Colonna, Franco Coni, Piera degli Esposti, Gino Evangelista, Nuccia Fumo, Annibale Guarino,  Franco Iavarone,  Rosario Laino, Nello Mascia, Gino Monteleone

 

Prima nazionale L’Aquila – Teatro Comunale 26 gennaio 1994

Trama

Una musica dei ciechi, e cioè un’orchestrina girovaga e mendicante che alterna, a celebri canzoni napoletane, teneri valzer di operetta. Tra i suonatori, il contrabbassista Don Ferdinando, che ha una moglie, Nannina, incontrata e sposata per caso.
Com’è Nannina? Don Ferdinando non lo sa. Lei dice di essere bella, ed egli ama crederle, fino ad essere preso da gelosia per un certo Alfonso, impresario e accompagnatore della piccola “troupe” miserabile.
La gelosia, e il dramma, divampano improvvisi. Don Ferdinando tenta di scacciare la donna, di abbandonare la “musica”, ma a ricondurre sulla via della ragione è l’umile e tardiva confessione della donna, d’essere brutta, di non poter essere amata e desiderata da nessuno, che non sia cieco come lui.

Note di regia

C’è, nella “MUSICA DEI CIECHI”, una forza immensa, centrifuga. Dalla piccola storia di un’orchestrina girovaga, di musicisti che non vedono, si sprigiona e diffonde il senso di una inanità esistenziale, legata non solo alla Napoli di vicolo e sentimenti in cui Viviani la muove, ma propagabile alla contemporaneità dell’Assurdo. È un connotato, questo, certamente intrinseco all’atto unico, che necessita però di attenzioni particolari perché emerga e si renda esplicito. Attenzioni di lettura, di messinscena, d’interpretazione. Perché lo scontro della gelosia immotivata di un suonatore di contrabbasso (che, cieco, non ha mai visto la propria moglie e la crede bella) con la necessità catartica, da parte della donna, di confessare la propria indesiderabilità, trovino davvero la via per riassumere disagi comuni a tutti, dal dopoguerra ad oggi. E riescano a incarnare l’afasìa di bocche incapaci di parola definitoria, il dolore dell’inconoscibilità del Reale, la frustrazione di rapporti interpersonali sempre più frantumati, impossibili.
Così, senza forzare, la piazzetta di Napoli (delimitata “wasteland” della nostra condizione umana) in cui un orbo guida e strumentalizza il gruppo dei ciechi: la povera donna che si affida al vitalismo del vivere quotidiano, “brutta” accanto a un “segnato”; il testimone oggettivo delle passioni, incarnato da un ostricaro rude e quasi sinistro; il faccendiere dal volto umano che, senza essere mai nominato né mai comparire, sovrintende al formicolio generale, nei panni, forse, di un Dio assente; tutto ciò va a comporre il quadro della poetica disgregazione dell’Oggi. E nella musica straziante e dolce dei poveri professori, accompagnata dall’ondeggiare degli assurdi riccioli stanchi della donna a torto contesa, ecco le domande senza risposta dei teorici del Nuovo, il nichilismo di Beckett, le angosce di Kantor, le boutades di Ionesco, il realismo disincantato di Heiner Muller, capace, in condizioni di allarme, di arrivare alla Tragedia.
Antonio Calenda