La notte poco prima della foresta
di Bernard-Marie Koltès
scena Sergio Tramonti
costumi Agata Cannizzaro
musiche Pasquale Scialò
luci Cesare Accetta
regia Nora Venturini
con Giulio Scarpati
Lo spettacolo ha debuttato nel mese di settembre al Festival Palermo di Scena 2001 ed ha effettuato una tournée nei mesi successivi.
NOTE
La lettura di un testo di Bernard-Marie Koltès è paragonabile all’innesto e al turbamento di una rivelazione.
Una sola frase di quaranta pagine, emesse quasi d’un solo fiato, senza quei punti fermi che a ogni momento minacciano d’interrompere il bisogno lucido e poetico di un getto di parole. E nella sua partitura senza soste, La nuit juste avant les forêts era dunque anche l’affermazione di un teatro riconducibile a frase musicale ininterrotta. Quel che è certo, è che dal luglio del ’77 all’aprile dell’89, fin cioè al momento della sua prematura scomparsa a soli quarant’anni, Koltès ha saputo instillare una voce lancinante e vertiginosa nel deserto della scrittura drammatica contemporanea.
A lungo andare, le mete di Bernard-Marie Koltès prescindono, sia nella vita che nell’arte, da un univoco e ristretto sodalizio di compagni di viaggio: «Il mio reale milieu» si risolse a confidare «è una via di mezzo tra l’hotel per immigrati e l’hotel a ore. Le mie radici non esistono. A un dato momento, uno si sente bene nella propria pelle. Tutt’al più, credo che in me sussista una derivazione che fa capo al punto di contatto fra la lingua francese e il blues».
La costante dell’uomo straniero, e non importa su quale sfondo, è appunto la via maestra di La nuit juste avant les forêts del ’77: senza mai concedersi un punto fermo, il monologo fila nervoso, complice, digressivo, ipotattico, visionario come una ballata, pazzo come la puttana di turno. Vi si cantano «le vecchie, gli arabi, i mendicanti, i controllori, i poliziotti, i teppistelli tirati a lucido, lo schifo di odori, lo schifo di rumori, i litri di birra, la voglia di una stanza» mentre incessantemente e stupidamente piove su una casbah metropolitana, sulle ronde degli uomini soli a piedi, sui ceti e sulle categorie che i peggiori responsabili della cosa pubblica, i «porci», hanno confinato su pianta con un segno di matita. È anche, questo fiume di parole, un apartheid esplicato e sublimato a pieno da una parabola del Nicaragua, dove si narra quando e come un vecchio generale e i suoi soldati prendano di mira «tutto quello che vola al di sopra del fogliame», «tutto quello che compare ai margini della foresta», «tutto quello che non ha il colore degli alberi o che non si muove allo stesso modo».
Questo testo di Koltès è un monito e al tempo stesso una preghiera profana, è il diario privato di un abbordatore di sbandati e inermi, è il manifesto promulgante un Sindacato Internazionale per la Difesa dei Ragazzi non Troppo Forti («figli diretti delle loro madri, con la camminata dondolante da maschi tutti un fascio di nervi»). Questa pièce monodica e notturna è l’omaggio in verbis di uno scontento che ha fatto ditta con un ignaro, un’affabulazione che muove da un culto quasi più moralistico che omosessuale della solidarietà, con i ritegni del cameratismo, le ire della non violenza, e anche col vaneggiamento, l’illusione di un eterno femminino che qui ha le sembianze di una giovane donna d’acqua, un fantasma dostoevskiano sottratto a un ponte forse di Pietroburgo.
La nuit juste avant les forêts è pure un rapsodico inno all’amplesso e alla latitanza, al fare le valigie, un inno all’abolizione degli specchi, alle camminate sui marciapiedi, un inno all’amore per ombre materne, per prostitute, per angeli in mezzo al casino, per compagni sotto la pioggia. Perché piove molto, piove come una benedizione o come un umidiccio sulla testa di macrò inguaribili, piove dalla prima all’ultima parola di questo appello alle umane genti che sanno, che “si sanno”, e che qui, con Koltès, si fanno sapere, sentire.
Rodolfo di Giammarco
tratto da La notte poco prima della foresta Gremese Editore – New Books s. r. l. Titolo originale: La nuit juste avant les forêts
1988 Les Éditions de Minuit – Parigi
Note di regia
Lessi per la prima volta il testo di Koltès circa dieci anni fa e me ne innamorai immediatamente. L’impatto fu folgorante ed assolutamente emozionale: turbamento, commozione, senso di smarrimento e di perdita che pochi testi mi hanno suscitato. E per questo, nel metterlo in scena, anche se alla prima lettura ne sono seguite tante altre, ho preferito seguire una strada “emozionale” più che “analitica”, la strada delle suggestioni, delle sensazioni, degli echi, dei ricordi…e così ho lasciato che dal torrente di parole e immagini del mondo di Koltès, che mi aveva invasa alla prima lettura come un fiume in piena, emergessero piano piano alcuni elementi e si facessero largo tra gli altri: gli specchi, un ponte solitario, un lampione, il vento, la luce, la pioggia…Come degli squarci, dei bagliori nella città notturna, visti attraverso la lente delirante e poetica dello Straniero, dell’emarginato, della vittima che grida la sua rabbia contro i suoi carnefici.
Ma “La notte poco prima della foresta“ è anche una lunga, ininterrotta dichiarazione d’amore, urlata e trattenuta, spudorata e reticente, ma senza mai prendere fiato, ad un giovane “compagno di sventura”, specie di miraggio nella notte, forse più desiderio che realtà, desiderio di contatto fisico e di calore ma anche bisogno ancestrale di riconoscersi finalmente con un proprio simile, àncora di salvezza in un mondo violento ed estraneo.
La presenza del compagno, perciò, sarà l’unico elemento “concreto”, ma non troppo, sul palcoscenico, referente muto a cui tutti i racconti, le digressioni, le invettive, i ricordi dello straniero riconducono. E poi gli specchi, gli odiati specchi che lo circondano, in cui l’immagine dello straniero si sdoppia, e ci restituisce la solitudine dell’uomo accerchiato da altri individui che lo spiano, soli e farneticanti come lui, ma anche l’idea della realtà che si moltiplica e si fraziona, si frammenta e si ripete ossessivamente, come il suo racconto, come la molteplicità delle esperienze e dei ricordi, in un disordine temporale molto più vicino al sogno che alla realtà.
Per il resto il palcoscenico sarà uno spazio astratto, bistrot notturno o strada vuota, a cui la luce e certe sonorità daranno un valore evocativo, in cui possano convivere tutte le situazioni che scaturiscono dal flusso del racconto, in un presente drammatizzato della memoria, nel tentativo di restituire la forza e la varietà del tessuto verbale di Koltès, che è simbolico e tangibile al tempo stesso, fisico e metaforico, carnale e poetico, urlato e sussurrato.
E su tutto questo universo, la pioggia, come rumore e come materia, elemento costante e unificante del testo, che bagna tutto e ci restituisce quel freddo, quel disagio, quell’assenza di riparo(per il corpo ma anche per il cuore e per la mente) ma anche simbolo di moto perpetuo, flusso liquido che trascina con sé tutto il vissuto dell’esperienza, del ricordo, del dolore, della rabbia, della nostalgia…
Nora Venturini
Musica
“La nuit juste avant les forêts” di Koltès si configura come un urlo ininterrotto per voce sola. Una sequenza monofonica di incontenibile rabbia, tanto reiterata da divenire meccanicamente un loop. Quasi il suono stridente di un cacofonico quanto inarrestabile jukebox antropomorfo che vomita ossessioni, aggressioni, ambiguità. A tratti anche una disperata religiosità profana rivolta, o evocata, a figure devianti: prostitute impazzite, teppisti metropolitani, incontri notturni nella penombra di un ponte, amori impossibili pregnanti di ambiguità. Tutto in una cornice di nomadismo senza un attimo di respiro, nell’angoscia di una vita non sedentaria vissuta con dolorosa precarietà.
Questi, per me, i principali temi presenti in questo lavoro insieme ad uno specifico artificio formale ed espressivo: l’assenza del punto tra i segni d’interpunzione, un continuum verbale privo d’interruzioni che si concede solo brevi attimi di respiro, quasi fisiologici.
Una scrittura fatta tutta di solo lettere minuscole, una democrazia utopica della semiografia priva di gerarchie. Ma anche una concezione modulare che fa sì di poter riprendere il testo da un qualsiasi punto. Come una musica senza cadenze, un moto perpetuo di parole, un pedale di sentimenti ad libitum.
Non so se Koltès immaginasse anche una precisa musica di scena quando scriveva questo lavoro. Le indicazioni che emergono dal testo contengono una pluralità di matrici sonore da quelle etniche (un arabo che canta una tiritera, il sognare il canto segreto degli arabi) alla musica di strada; da quella colta, qui rievocata in modo dispregiativo («arie d’opera o stronzate del genere»!) fino alla babele sonora della metropoli che l’autore non indugia a definirla casino. Insomma più che una specifica musica, il testo suggerisce un sostrato sonoro che fa pensare ad una sorta di zapping multirazziale. Ma sempre per una sola voce. Una voce, o meglio un canto sedativo, che nasconde uno straordinario potere magico-terapeutico: «[…] se invece di sputar fuori tutto quanto (perché lei non sospettava nulla di me) me l’avesse detto cantando? Avrebbe potuto cantarmi qualsiasi cosa, io non avrei potuto fare più nulla, sarei stato d’accordo su tutto».
Da queste osservazioni preliminari ho iniziato a lavorare con Nora e Giulio partendo da due principali interrogativi: quale funzione conferire alla musica per questa messinscena e che tipo di linguaggio adottare.
Per primo abbiamo scelto, diversamente dalla struttura ininterrotta del testo, di utilizzare un intervento sonoro che, invece, scandisse i principali cambi di umore del copione. Poi, abbiamo selezionato le matrici sonore più congeniali: etniche, jazzistiche ed alcune poetiche musicali del Novecento. In realtà si è scelto di adottare un ampio e diversificato tessuto sonoro in grado di suggerire quel plurilinguismo caratterizzante la nostra cultura contemporanea. E qui il lavoro compositivo si è orientato tanto sulla scrittura musicale artigianale (Desert midnight un tema jazzistico omaggio a Monk e Mama, una solitaria e notturna melodia per sax soprano),quanto sull’invenzione di diversi paesaggi sonori. Degli ambienti timbricamente caratterizzati ma non naturalistici: in tal senso Vento mix, un paesaggio realizzato utilizzando in sovrapposizione il soffio di numerose ocarine, può restituire la dimensione di un peregrinare notturno e disperato sotto la pioggia, senza raddoppiare il contenuto del testo verbale. Altri ambienti sonori contengono invece al loro interno delle citazioni minime estrapolate da alcune opere contemporanee.
In coda, un lungo brano per accumuli che intreccia gran parte dei materiali utilizzati.
Pasquale Scialò